10
Set
2014
La questione del referendum
Un articolo di Charles Stross
(fonte)
«La Scozia dovrebbe essere una nazione indipendente?»
Ho votato per posta. Ho già espresso il mio “sì”.
Il motivo di questa scelta, però, potrebbe risultare inusuale ai più…
Lasciamo perdere tutte le argomentazioni a breve termine avanzate da entrambe le fazioni: quale valuta userà la Scozia? Quali saranno i vantaggi e gli svantaggi? Quale sarà la politica di difesa scozzese dopo l’indipendenza? Monarchia o repubblica? Quale passaporto useremo? …e via dicendo. Tutto ciò si risolverà in tempi ridotti, al massimo nel giro di una generazione.
Dico sul serio: il 95% della discussione politica sul referendum, sia a livello mediatico che popolare, si è focalizzata su problemi a breve termine, faccende risolvibili in un modo o nell’altro nei successivi giorni o mesi (o, talvolta, mesi o anni). Nell’aria, aleggia una grandiosa dose di PID: Paura, Incertezza & Dubbi. Molti sembrano convinti che, se il 18 settembre la Scozia scegliesse l’indipendenza, il 19 sarà loro strappata la cittadinanza britannica, spunteranno milizie armate sulle autostrade di confine e la Regina sarà rimossa dal trono a calci entro la fine del mese. Inutile specificare che non accadrà nulla del genere.
Nella mia scelta per il referendum, ho ragionato soprattutto a lungo termine.
In questa ampia prospettiva, preferirei un’Europa — anzi, un mondo — composto da stati molto più piccoli di quelli attuali. Non soltanto preferirei un Regno Unito ridotto, ma anche degli Stati Uniti, India e Cina accorciati. Facciamo a pezzetti il sistema westfaliano. Viviamo in un mondo dominato da due tipi di entità collettive; gli stati nazionali (con confini pattuiti ed obblighi dovuti ai trattati stipulati dopo la guerra dei trent’anni) e le entità corporative transnazionali (le quali ingrassano in una cornice di libero scambio offerto dai succitati trattati, tessuto connettivo degli stati westfaliani).
Credo che lo stato nazionale westfaliano non solo abbia dimostrato la sua obsolescenza: sta cadendo a pezzi, è sull’orlo di un collasso catastrofico. Il mondo di oggi è molto più piccolo di quello del 1648; l’intero pianeta, in termini di viaggio, si è ridotto a proporzioni analoghe a quelle dei paesi del Regno Unito. Nel 1648, viaggiare dal sud della Scozia (da, per esempio, Berwick-Upon-Tweed) fino al remoto nord-est avrebbe richiesto, come minimo, un paio di settimane per mare; percorrere la stessa distanza per terra avrebbe implicato un difficile viaggio per migliaia di miglia tra montagne, paludi e boschi, sia a piedi che in groppa ad un cavallo. Oggi, si può percorrere la stessa tratta in un paio di rumorose ore su un aereo di linea. La distanza è implosa tutt’intorno a noi.
In molti sensi, la definizione di uno stato westfaliano (ovvero uno stato capace di controllare il territorio entro i suoi confini) era un effetto collaterale della distanza: un esercito straniero non avrebbe potuto attraversare i suoi territori senza temere rappresaglie.
Oggi le nostre nazioni non soltanto hanno subito una strana implosione geografica, a partire dal diciassettesimo secolo, ma la loro popolazione è esplosa. I cittadini delle colonie americane nel 1790 sono stimati in circa 2,7 milioni; oggi gli Stati Uniti ne contano più di 300 milioni. Nel 1780, l’Inghilterra ed il Galles avevano circa 7,5 milioni di abitanti; ora siamo a 57 milioni. Quindi, abbiamo delle popolazioni incrementate di uno o due ordini di grandezza, unite ad un decremento nei tempi di viaggio di due o tre ordini di grandezza… e forse un decremento dai tre ai cinque ordini di grandezza nella latenza delle comunicazioni.
In questi anni, gli effetti collaterali di questo problema sono evidenti in tutti gli aspetti della vita sociale. Gli stati westfaliani non riescono, in larga parte, a controllare il proprio territorio, ovvero tenere gli stranieri (intesi come soldati, e non singoli migranti) fuori dai propri confini; per dimostrarlo, è sufficiente constatare l’agghiacciante situazione dell’odierna Ucraina. Gli attori non statali hanno ora un ruolo sempre più prominente nell’imporci le nostre condizioni economiche. Inoltre, sono convinto che, oggigiorno, accada qualcosa di orribilmente storto alle democrazie rappresentative che superano una popolazione di 5–15 milioni di cittadini: la responsabilità diretta dei politici svanisce e ci troviamo in quella che ho definito una “dittatura beige” (NdT un analogo italiano di questo concetto è il passaggio Monti-Letta-Renzi (oppure il “pilota automatico” di Draghi), mentre uno USA è il famoso discorso sull’America come un’aquila con due ali, entrambe destre). Il beige non è nemmeno il peggior colore: alcuni politici non beige sono addirittura più allarmanti, come Nigel Farage o Marine LePen. Tuttavia, il loro successo popolare è sintomo di un fallimento istituzionale, un deficit nella rappresentanza: molti elettori si sentono così alienati dei governi beige che preferiscono votare per le camicie brune.
La mia sensazione è che degli stati molto più piccoli possano servirci meglio, se operano all’interno di una struttura di trattati oppure in una confederazione sufficientemente lasca. Gli stati così ridimensionati potrebbero badare alle problematiche locali, e, nel contempo, compartimentalizzare le modalità di fallimento: un potere imperiale che si sbriciola causerà quasi sempre una catastrofe maggiore della dissoluzione di uno staterello (compariamo, ad esempio, la disintegrazione dell’URSS con quella della Cecoslovacchia).
Piuttosto che enormi stati monolitici, governati da elite distanti dai loro cittadini, e che, quindi, basano le loro direttive politiche sui desiderata dei lobbisti piuttosto che quelli degli elettori, preferirei organizzazioni vincolate da trattati, analoghe alla UE o alla NATO, emerse da un consenso generale prodotto dal pubblico dibattito di entità più piccole, i cui rappresentanti sono veramente tenuti a rispondere delle loro scelte agli elettori (chiamatemi un utopista, se volete).
Sì, questo tipo di argomenti sono validi anche per sostenere la scissione del Galles, dell’Inghilterra settentrionale e della stessa Londra. L’indipendenza scozzese è soltanto il primo passo.
Un appunto finale: che dire dell’internazionalismo di sinistra? Dopotutto, il nazionalismo non era nemico della classe operaia? Ovvero, se partiamo dal presupposto che chiunque, fuori dallo 0,1% della popolazione, è parte della classe operaia (nel senso che deve lavorare per vivere), il nemico di tutti noi?
Ebbene, sì, è proprio così. Eppure, il genere di nazionalismo che ha scatenato la Grande Guerra è ormai morto è sepolto (ai fini di quest’analisi, considereremo la Seconda Guerra Mondiale come un riattizzarsi dello scontro iniziato nel 1914, dopo che i combattenti ebbero modo di produrre una nuova generazione di carne da cannone). È morto proprio come lo sono gli stati westfaliani, nazioni in grado di difendere la propria integrità territoriale, perché passare dall’una all’altra avrebbe richiesto giorni o settimane in treno o in vaporetto, ed invaderne una avrebbe richiesto giorni o settimane di marcia da parte di intere divisioni di fanteria.
Ormai, la classe operaia non è più un’entità chiaramente delineata, i cui componenti condividono un forte senso di solidarietà: dov’è la solidarietà tra un avvocato ed uno spazzino, tra un infermiere ed un progettista di robot? Sì, il capitalismo e la crisi del capitalismo sono ancora tra noi, ma la perdurante ricomplicazione del mondo rende i tradizionali movimenti di massa una questione d’importanza opinabile. Abbiamo bisogno di strutture migliori, è vero, ma non credo che possano emergere da uno stato monolitico, territorialmente egemonico, convinto che il suo ruolo nel mondo sia meglio protetto dalla costruzione di portaerei sempre più grosse.
La capacità offensiva non accresce la stabilità esterna, come gli ultimi dieci anni in Iraq hanno dimostrato senza ombra di dubbio. Abbiamo bisogno di consenso, ed abbiamo bisogno di una più fine granularità nella decisione politica. Per ottenere questi due risultati, quindi, ci servono degli stati nazionali più piccoli.
Nessuna granularità per le megacorp westfaliane
Dopo il testo originale, qualche mio appunto all’articolo di Stross:
Nonostante buona parte dei problemi discussi da Stross siano importanti (uno tra tutti, la cosiddetta “dittatura beige”), e la riconfigurazione degli stati non sia un tabù, credo che uno o due passaggi da lui messi a tema debbano essere approfonditi.
1) Prima di tutto, e questo tema è stato immediatamente evidenziato nella discussione che è seguita alla pubblicazione del pezzo, Stross pare sottovalutare il ruolo dei cosiddetti “attori non statali”. È una mera faccenda di rapporti di forza: che fare quando la Nestlé, l’FMI o un singolo hedge fund sarà più ricco e forte di ogni singolo stato europeo (ridimensionato)? Chi gli impedirà di comprarsi un proprio esercito, ad esempio? Uno scenario del genere, tra l’altro, è il classico panorama cyberpunk, in cui i gruppi privati (le megacorp) detengono un potere smisurato in confronto a quello degli stati, il quale sostanzialmente svanisce. Finora, gli stati mantengono un ruolo prominente sui gruppi privati anche perché, mentre i secondi detengono il potere del denaro, è pur vero che i primi detengono il potere del ti-sparo-una-pallottola-in-faccia. E, come dicono i saggi, quando un uomo con un portafoglio incontra un uomo con un fucile, il primo è un uomo morto. La questione è, naturalmente, più complessa ed ambigua di come la sto esponendo, ma mi pare che la schematizzazione sia calzante per evidenziare gli snodi problematici del discorso.
Credo che, se si vuole limitare lo strapotere degli “spiriti animali” del capitalismo, gli stati debbano essere rafforzati e non indeboliti (ovvero, il tanto vituperato “primato della politica” sull’economia). Per ottenere questo risultato è necessario il consenso, ma è anche vero che, nella nostra monocultura, il consenso si compra e si vende, per cui gli strumenti che ci servono sono saldamente nelle mani dei nostri avversari.
Stross pare d’accordo sul discorso del primato della politica, ed accenna al problema posto dagli attori non statali (nell’articolo e nella discussione successiva): la soluzione proposta è un network di trattati o una “confederazione lasca” che possa far pesare le sue decisioni per il bene pubblico sugli interessi privati. Purtroppo, organismi del genere già esistono (la UE, ad esempio) e sono il caso più feroce di “dittatura beige” presente sul pianeta: non hanno alcun legame con la propria base elettorale e nessun tipo di accountability. Ovvero, spezzettare il sistema di Westfalia per sfuggire alla dittatura beige ci potrebbe far finire in una più grande, e più assoluta (nel senso di “sciolta da vincoli”), dittatura beige. Perché una linea politica sovranista possa dirsi sensata, dovrebbe prima di tutto sbrogliare questa matassa, e farlo in modo pragmatico, valutando i rapporti di forza in atto. Finora, chi si è occupato della materia l’ha fatto in senso puramente astratto ed, infine, velleitario (ad esempio, l’attuale posizione della sinistra, e pare anche di Stross, riguardo a questo tema è: «Banalità! È sufficiente trasformare la UE in un’entità democratica, illuminata e meravigliosa, in cui tutti i popoli si abbraccino in un orgasmo universale!»). Senza una soluzione per questi problemi, il sovranismo non ha, per me, alcun interesse: è un mero nazionalismo in sedicesimo. Quindi, riassumendo: se si spezzetta il sistema di Westfalia per consentire una maggiore granularità politica SENZA implementare una confederazione, si finisce nello scenario cyberpunk più estremo. Se lo si fa CON una confederazione, si aggrava il problema della dittatura beige. La soluzione, come pare ovvio, sarebbe modulare una confederazione in modo radicalmente diverso da quelle del passato e del presente, ma per ora non c’è alcun modo realistico per farlo; inoltre, rimane il dubbio che, date le attuali contingenze storiche, sia impossibile farlo anche soltanto a livello teorico.
2) Stross dà per scontato due cose che scontate non sono affatto: prima di tutto, che il nazionalismo old-school sia morto e sepolto; in secondo luogo, che la classe operaia sia composta da chiunque debba lavorare per vivere (ovvero, estende questo concetto fino a coprire tutta la popolazione, salvo una manciata di rentier). Lascio stare questo secondo punto, perché Stross l’ha affrontato in maniera articolata in altri pezzi e mi porterebbe enormemente off topic.
Sulla questione del nazionalismo: la storia non procede baldanzosamente in avanti in un progresso dalle magnifiche sorti e progressive. Niente muore mai. Un preciso equilibrio alchemico di fattori sociali raccapriccianti è sufficiente a resuscitare qualsiasi incubo storico del passato. I partiti nazisti o fascisti che stanno prendendo piede in questi anni, come Pravy Sektor in Ucraina o Alba Dorata in Grecia, sono esempi del nazionalismo old-school che Stross dà per morto. «Non è morto ciò che in eterno può attendere», diceva un certo tomo nefando.
Aggiornamento 23:19 — il pezzo è stato ripreso da Megachip.
Aggiornamento 23:19 — il pezzo è stato ripreso da Megachip.