6
Dic
2010

Nyx

E' appe­na usci­to nel­le libre­rie NYX — Rac­con­ti del­la Not­te, pub­bli­ca­to da Arka­dia. E' un anto­lo­gia di sto­rie bre­vi rea­liz­za­te da auto­ri accla­ma­ti come Miche­la Mur­gia, Mar­cel­lo Fois, San­dro­ne Dazie­ri, Otto Gabos, Fran­ce­sco Aba­te ed Erri­co Buo­nan­no ed altri auto­ri che, seb­be­ne meno accla­ma­ti, sono gigan­ti dell'intelletto e fisi­ca­men­te bel­lis­si­mi (come me, ad esem­pio, più De Roma, Giam­mei, Ibra­hi­mi, Lino, Napo­li, Nepò, Sanna).
All'interno del volu­me è pub­bli­ca­ta la mia sto­ria bre­ve Not­te dell'Avvenire, un rac­con­to che esplo­ra l'utopia ed il ter­ro­re del pro­gram­ma spa­zia­le sovie­ti­co, seguen­do le trac­ce del­la cosmo­nau­ta Liza Klub­ni­ko­va, un per­so­nag­gio model­la­to sul­la vita del­la pri­ma don­na nel­lo spa­zio, Valen­ti­na Tereshkova.

Quel­lo che segue è l'incipit del racconto.
Mi chia­mo Liza Klub­ni­ko­va. Un nome la cui eti­mo­lo­gia, un gar­bu­glio di anti­co rus­so ed ebrai­co del­le ori­gi­ni, signi­fi­ca “Dio è per­fe­zio­ne: fra­go­le!”. Lo ammet­to, è mol­to cari­no nel­la sua assur­di­tà. Pro­prio come me. For­se è per que­sto che in quel cru­cia­le gior­no, men­tre il pia­ne­ta ribol­li­va e stre­pi­ta­va come una pen­to­la a pres­sio­ne, il mio cruc­cio era di natu­ra ben diver­sa. Quel pome­rig­gio, un ami­co psi­chia­tra era riu­sci­to a pas­sar­mi sot­to­ban­co una dose da caval­lo di Dia­ze­pam, facen­do­la pas­sa­re al di là del muro sot­to i nasi del­le guar­die.
Arri­vai a casa, rimi­si un pò in ordi­ne, but­tai giù la mia medi­ci­na insie­me ad uno o più sor­si di Sto­lich­na­ya. Ricor­do che il mio salot­to ave­va l’aspetto di una vec­chia cia­bat­ta e che rima­si per qual­che minu­to a medi­ta­re sul curio­so odo­re del mio diva­no. L’editore, quel­la mat­ti­na, mi ave­va infor­ma­to che le copie del mio ulti­mo roman­zo era­no final­men­te arri­va­te, fre­sche di stam­pa. Si era sca­pi­col­la­to per orga­niz­za­re in gior­na­ta la pri­ma pre­sen­ta­zio­ne dell’opera. Da quan­do il Comi­ta­to per le Arti e lo Spet­ta­co­lo ave­va dira­ma­to un docu­men­to che cer­ti­fi­ca­va pub­bli­ca­men­te il sostan­zia­le fal­li­men­to dell’arte del­la Repub­bli­ca Demo­cra­ti­ca Tede­sca, gran par­te del­la sce­na let­te­ra­ria ave­va sem­pli­ce­men­te get­ta­to la spu­gna, men­tre alcu­ni spe­ran­zo­si socia­li­sti come l’editore Bie­ber sma­nia­va­no al pen­sie­ro di smor­za­re la depres­sio­ne del­le clas­si diri­gen­ti con una pala­ta di glo­rio­sa let­te­ra­tu­ra fan­ta­scien­ti­fi­ca. Ergo, avrei dovu­to diri­ger­mi al Cir­co­lo Cul­tu­ra­le del­la Gio­ven­tù Comu­ni­sta alla fine di Jahn­stras­se arma­ta del mio Stu­pe­fa­cen­ti Incon­tri su Alpha-Epsi­lon IX e con­vin­ce­re la suc­ci­ta­ta Gio­ven­tù che un'iniezione di sto­rie d’amore venu­sia­ne ci avreb­be, in qual­che modo, resti­tui­to il vigo­re neces­sa­rio per rap­pez­za­re l’Ideale e dare qual­che watt di lumi­no­si­tà al Sole dell’Avvenire.
Rima­si a cro­gio­lar­mi sul diva­no per gran par­te del­la sera­ta, con il gat­to acco­vac­cia­to sul­la pan­cia. Dopo il quar­to bic­chie­re di Sto­lich­na­ya non riu­sci­vo a non asso­ciar­lo all’Incubo di Hen­ry Fuse­li. But­tai giù qual­che nota sul mio tac­cui­no, per ave­re alme­no una trac­cia da segui­re duran­te la pre­sen­ta­zio­ne. Ten­tai di far rie­mer­ge­re dal­la palu­de del­la memo­ria qual­che aned­do­to inte­res­san­te. Rima­si a fis­sa­re le foto­gra­fie incor­ni­cia­te ed appe­se sul­la pare­te rab­ber­cia­ta. In una di esse, Chruščёv mi strin­ge­va la mano ed io fui immor­ta­la­ta men­tre sbir­cia­vo l’enorme fes­su­ra tra i suoi den­ti. Duran­te lo scat­to, ero com­bat­tu­ta tra il desi­de­rio di abbrac­cia­re il Com­pa­gno Niki­ta o scop­pia­re a pian­ge­re. For­se feci entram­be le cose. For­se no. Mi addor­men­tai. Mi risve­gliai. Ripre­si a scri­bac­chia­re qual­che appun­to sul tac­cui­no. La bot­ti­glia era miste­rio­sa­men­te vuo­ta. Il mio siste­ma ner­vo­so era miste­rio­sa­men­te in mace­rie. Pre­si fia­to e cara­col­lai ver­so il bagno. Dopo una doc­cia geli­da, tra­scor­si un perio­do inde­ter­mi­na­to a rastrel­la­re il gro­vi­glio stop­po­so che si osti­na a cre­scer­mi in testa, men­tre il gat­to ten­ta­va di ricat­tar­mi emo­ti­va­men­te per rime­dia­re un enne­si­ma dose di cibo (abi­tu­di­ne che ave­va in comu­ne, tra l’altro, con il mio ex-mari­to). Uscii in tut­ta fret­ta e mi dires­si a pie­di ver­so la Jahn­stras­se. Il gat­to mia­go­la­va dal bal­co­ne di casa. Era un bell’esemplare di sia­me­se. Quan­do lo incon­trai per la pri­ma vol­ta, inda­ga­va tra tavo­le di legno spez­za­te, vec­chie sco­pe e lat­ti­ne di bir­ra ammon­tic­chia­te in un vico­lo. Dava l’impressione di esse­re impe­gna­to in un inca­ri­co del­la mas­si­ma impor­tan­za. Deci­si di pren­der­mi cura di lui. Lo chia­mai Vostok.