2
Dic
2013
Grand Theft Auto V — In difesa di una banda di bastardi
(Questo articolo è una risposta al pezzo di Giulietto Chiesa su GTA V)
Premetto che affronto la polemica nata nell'articolo di Giulietto Chiesa da una prospettiva particolare: prima di tutto, faccio parte del suo laboratorio politico, Alternativa, per cui tributerò a Giulietto il rispetto che merita e non chiuderò la questione con un mero insulto, come di certo hanno già fatto molti troll. In secondo luogo, sono dal 1997 un grande estimatore dei videogame della R*, nonché un loro ex-impiegato (ho lavorato come localization tester per la loro filiale di Lincoln), per cui la mia conoscenza della materia è più ampia di quella del lettore casuale.
La condanna di Chiesa esprime sentimenti senz’altro condivisi da molti, anche nella sfera della politica attiva. Possiamo citare il panico morale aizzato contro i videogame “violenti” dal senatore Lieberman negli USA all’inizio dei ’90, per citare uno dei casi più noti, oppure gli exploit del nostro Mastella del 2006. La fustigazione di videogame come fonte di corruzione è assolutamente trasversale agli schieramenti politici ed è stata, negli anni, sollevata da sostenitori delle idee sociali più diverse. La domanda è: cosa hanno in comune Chiesa, Lieberman e Mastella? Cosa li ha condotti ad articolare una critica tutto sommato identica nei confronti di tre diverse iterazioni dello stesso videogame, Grand Theft Auto? L’unico comune denominatore tra i tre è presto detto: non hanno mai giocato a un videogame in vita loro. Inoltre, pensano che uno di essi — in particolare — sia un’Arma di Distruzione Psichica di Massa. Per cui, intendo dilungarmi (eccessivamente) sui principali punti caldi dell’articolo di Chiesa, nel tentativo di fornire a lui, e a qualunque altro lettore poco avvezzo al mondo del videogame, qualche chiave di lettura supplementare, affinché possano non preoccuparsi ed amare la Bomba, come diceva il buon Stanley.
Dicevamo, l’esperienza di Chiesa in materia di videogiochi consiste nell’osservare uno schermo su cui avvengono eventi scatenati da un giocatore terzo: nella loro prospettiva esistenziale, la fruizione del medium cinema e del medium videogame avviene essenzialmente allo stesso modo. Quindi, pensano sia la stessa cosa. L’assurdità di questa idea è lapalissiana agli occhi di un qualsiasi giocatore. Un film non è un videogame, e viceversa. Prima di tutto, i meccanismi di immedesimazione sono diversi. Il cinema ha un pubblico passivo e prigioniero (entri in sala, ti siedi e ti sciroppi novanta minuti di narrazione senza interferenze), il videogame deve gestire un pubblico attivo e spesso maniacalmente intento a scardinare la logica stessa della narrazione per trarne un vantaggio tattico (i maledetti cacciatori di exploit). Inoltre, è un pubblico che può bloccare o ripetere o modificare segmenti della “narrazione” in maniera del tutto confusionaria, secondo le sue esigenze contingenti, dando al flusso dell’esperienza ludica un corso sempre unico. I tester sanno bene che questo singolo problema è fonte di sofferenze inenarrabili per gli sviluppatori del gioco, perché nessun videogame sopravvive indenne all’impatto di un milione di giocatori, impegnati a saltellare qui e là, mettere tutto in disordine, infilare le dita in tutte le prese della corrente, mordere ogni palma, calciare ogni roditore ed, in generale, intraprendere qualsiasi assurda iniziativa balzi loro in mente (spesso peritandosi di riprendere il loro exploit, postarlo su Youtube ed sbeffeggiare gli sviluppatori per non averlo prevenuto). Questa basilare circostanza provoca uno straniamento automatico rispetto agli eventi raccontati, perché al giocatore viene di continuo rammentato di trovarsi davanti ad un videogame, senza bisogno dei cartelli di brechtiana memoria. Lo straniamento, in generale, è arginabile con varie tecniche: la breve e tumultuosa storia dei videogame come forma d’arte tende a privilegiare quella dell’immersione, ovvero la preferenza a rendere invisibili tutti gli elementi stranianti. Un grande esempio in tal senso fu Myst ed i suoi sequel: nessuna interfaccia, nessun dialogo, nessuna storia, soltanto un’inquadratura in prima persona che il giocatore può muovere in un isola misteriosa, al fine di svelarne gli enigmi. GTA è l’esatto opposto di questo approccio immersivo. Il primo livello di straniamento è dovuto alla presenza di un’interfaccia. Il secondo livello è dovuto all’inquadratura in terza persona (è difficile immedesimarsi a livello emotivo in un protagonista di cui si osserva perpetuamente la nuca, ancor peggio se i protagonisti sono più d’uno). Il terzo livello, ben più consistente, è dovuto alla coerenza artistica (sempre perseguita dalla R*) nel tentare di emulare il cinema pulp sia nelle tecniche espressive che nella sceneggiatura: per cui la seppur difficile immedesimazione viene spesso troncata di netto da un’abbondanza di cutscene di stampo cinematografico ed ancor di più dalla forte personalità dei protagonisti. Il giocatore non è mai portato a dire «Io sono il protagonista, io sto facendo queste cose» (come potrebbe fare in Myst), perché l’eccellente caratterizzazione dei personaggi disinnesca sistematicamente questo meccanismo psicologico.
Un’altra strada per potenziare il senso di immedesimazione nei videogame è la possibilità di personalizzare il proprio personaggio, talvolta in maniera straordinariamente puntigliosa, come avviene ad esempio in The Elder Scrolls: Skyrim (in cui il giocatore è libero di modificare l’aspetto del protagonista, non soltanto scegliendone il look generale, ma anche le sfumature, quali proporzioni o aspetto del naso, bocca, orecchie, vestiario, pettinatura, storia personale, orientamento sessuale, etc). Anche in questo caso, GTA, nonostante qualche minuta concessione a partire da San Andreas in poi, si è sempre collocato all’estremo opposto: i protagonisti, usciti dalla mente degli sceneggiatori, non hanno nulla di personale, nulla di prodotto o scelto dal giocatore stesso. Sono sempre loro, mai io. I giocatori ricordano The Secret of Monkey Island come le scorribande del protagonista, Guybrush Threepwood, e non come le loro avventure nell’Isola della Scimmia, a causa dell’eccellente caratterizzazione del protagonista e dell’ottima sceneggiatura, al pari di quelle presenti in GTA. Viceversa, videogame che privilegiano la personalizzazione, sono esperiti in diversa luce: un giocatore di World of Warcraft non vi dirà «Il druido Araziel ha partecipato all’assedio della cittadella del Re dei Lich», ma «Siamo andati in quaranta a macellare quei fottuti necromanti». Tutto ciò è, ripeto, lapalissiano per un giocatore (anche un giocatore ignorante, incapace di esplicitare queste sensazioni in modo compiuto), ma non lo è affatto per un osservatore esterno, soprattutto se esso tende a leggere ciò che vede sullo schermo con una chiave di lettura di tipo cinematografico. È anche per questi motivi che riuscire a far piangere con un videogame è molto difficile, mentre qualsiasi film sentimentale da mezza tacca ci riesce senza alcun problema. Il protagonista non è il giocatore. I film non sono videogame. Ogni giudizio sui videogame che sfrutta costruzioni teoriche modellate sulla televisione (come i citati McLuhan, Postman e Debord) è destinato a rivelarsi molto probabilmente inaccurato, così come la critica letteraria può essere fuorviante se applicata al fumetto.
Altra e più importante osservazione: quello che nel cinema è il montaggio, nel videogame sono gli algoritmi di gioco. I videogame non sono primariamente delle storie, ma dei luoghi governati da leggi inusuali. Chiesa ignora del tutto questo aspetto e, per ciò, rimane colpito da fenomeni superficiali senza cogliere l’essenza dell’esperienza videoludica. Il senso profondo di un videogame è dato dalle sue meccaniche e non dalle sue caratteristiche “cosmetiche”, dettaglio più appariscente per i profani. Che il bersaglio della pallottola sparata dal protagonista sia una creatura mutante da Epsilon 9 oppure un narcos messicano è, spesso, irrilevante per il giocatore, un mero accessorio di scena. Entrambi sono un ostacolo per la soluzione di un problema. E, soprattutto, non sono esseri umani, ma avatar delle meccaniche del gioco, quindi sfide o enigmi da risolvere. Il gioco consiste nella soluzione del problema. Quel che esteriormente può apparire come una rapina in banca, dal punto di vista soggettivo del giocatore è una serie di decisioni tattiche ed azioni d’estrema complessità, che richiedono pianificazione e tempismo per essere portate a termine. Il giocatore ha una percezione astratta ed iconica delle minacce che gli si parano davanti: accusare GTA di brutalità è, ai miei occhi, analogo ad accusare il gioco degli scacchi di anarchismo, per la sua preoccupante tendenza a concludersi con la morte di un re. Un esempio controintuitivo di questo fenomeno mi è stato fornito da un amico, cresciuto in Giordania. A quanto pare, il videogioco Counterstrike spopolava così tanto tra i giovani della sua città che molti imprenditori decisero di aprire intere sale dedicate soltanto ad esso. Counterstrike è un first person shooter (ergo: inquadratura in prima persona, necessità di mitragliare qualsiasi cosa si muova) in cui il protagonista è un membro dell’esercito USA in missione in Medio Oriente. L’obiettivo è falciare i Maledetti Arabi — per definizione Terroristi -, secondo un modello bambinescamente patriottico condiviso da vari altri videogame. Potrete capire quanto mi sia parso curioso il grande apprezzamento che i summenzionati Arabi-Per-Definizione-Terroristi dimostravano per Counterstrike. Un sociologo da pullman potrebbe dire che Counterstrike erode le virtù morali dei giovani giordani insegnando loro il servilismo all’Impero Americano e la colpevolizzazione preventiva dei blah blah blah. Il punto è che si tratta di un videogame eccellente e divertente, proprio come suo “cugino” Half Life, che ripropone le stesse meccaniche in ambiente fantascientifico. In uno si ammazzano i terroristi, nell’altro dei fascisti alieni in un futuro distopico. Entrambi sono apprezzati da milioni di giocatori a cui l’esatta identità etnico-politica dei bersagli è indifferente, perché non si tratta di esseri umani, né di personaggi in senso proprio, ma meri simulacri delle meccaniche di gioco, proprio quanto i pedoni ed i cavalli degli scacchi. Counterstrike è la versione più tecnologicamente avanzata del gioco degli “indiani e cowboy” che l’umanità abbia mai realizzato.
Altro punto dell’articolo di Chiesa riguarda le cifre: seguendo dei calcoli effettuati alla buona, si preoccupa delle ripercussioni sociali di GTA V, una volta entrato a contatto con «un settimo della popolazione del pianeta». GTA V viene anche etichettato come «evento che definirà una generazione». Ora, per quanto mi risulta, GTA V ha venduto 30 milioni di copie e sarà giocato da 30–50 milioni di persone, considerando qualche amico e fratelli o sorelle aggiuntivi. Se GTA V sarà piratato in maniera forsennata, sparando una cifra assolutamente a caso, potrei dire che potrebbe raggiungere 300 o addirittura 600 milioni di giocatori finali. Ebbene, Super Mario Bros ne ha venduto 40 milioni, ed è stato giocato da chiunque sappia cos’è un videogame. Quali sono state le sue ripercussioni sociali? In che modo ha cambiato il volto della società, imponendo i suoi valori morali e disgregando quelli pre-esistenti? Quante persone hanno iniziato a mangiar funghi magici e saltare sopra le tartarughe, per poi dedicarsi ad una vita all’insegna dell’idraulica, in emulazione di Mario? Anche The Elder Scrolls: Skyrim ha venduto bene: 20 milioni di copie. Dovremmo forse aspettarci che i giovani corrano per le strade sventolando delle alabarde, analogamente ai personaggi del videogame fantasy? Questo genere di argomentazioni parte da un assunto indiscutibile (“Ogni fenomeno di massa ha conseguenze di massa”) per trarne una conclusione arbitraria (“Tutti si comporteranno in accordo a quella che io percepisco essere la moralità intrinseca di GTA”). È una lettura troppo semplicistica. L’effetto di GTA sulla cultura mondiale è, allo stato delle cose, imponderabile. Io aggiungerei “superficiale” e “transitorio”, ma sono giudizi senza alcun riscontro nella realtà. Tuttavia, Wii Sports ha venduto il triplo di GTA V e non mi pare abbia modificato la nostra società in modo percettibile.
Nel pezzo di Chiesa ci sono anche paragrafi volutamente paradossali, come l’immagine di milioni di giovani zombie convenuti online a «stuprare puttane» tramite GTA V in vere e proprie associazioni a delinquere. Le partite in multiplayer non hanno alcun contenuto narrativo. Sono l’equivalente di una partita a tennis o a bocce. Sono delle gare di destrezza il cui obiettivo varia a seconda della modalità scelta. La più banale è il Deathmatch, in cui si sguinzagliano 16 giocatori in un quartiere e vince chi secca gli altri un numero maggiore di volte entro un tempo predefinito. Tutto ciò è sinistro quanto lo sono le pacchiane sale per Laser Game presenti in qualsiasi città, in cui i clienti sono dotati di una buffa pettorina e di un trabiccolo di plastica a mò di fucile “laser” (secondo i caustici standard retorici tenuti da Chiesa nell’articolo, potremmo etichettarle senza dubbio come “fucine del nuovo terrorismo fascista”). Inoltre, è bene sottolineare che, nel gioco, lo stupro è assente in ogni forma (una scena, accusata in tal senso, si è rivelata essere soltanto una mera faccenda di cannibali nudi).
Ultimo punto, il più importante. Ovvero l’accusa a GTA V di accettazione integrale del modello turbocapitalistico nei suoi aspetti più beceri e predatori, di gioco incompatibile con i buoni sentimenti. Fin dal principio, le ambientazioni di GTA sono sempre state caricature della società americana così per come è stata dipinta dei film di genere pulp. Sono quindi caricature di caricature, in un certo senso. Questa connotazione è esplicita, non una sottigliezza da intellettuali. Salendo su una qualsiasi automobile sgraffignata, è possibile sintonizzare la radio su uno o più canali integralmente dedicati a satire sferzanti delle trasmissioni televisive e radiofoniche statunitensi. Al contrario di quanto pensa Chiesa, GTA si è sempre sforzato di apparire quanto più antisistema possibile, sempre entro una cornice di genere pulp. Il potere, in GTA, è sempre e comunque il male assoluto. L’inevitabile scalata sociale del protagonista è affrontata con la tragica inevitabilità che ha mutuato da film come Scarface (nonostante, nel videogame, sia arricchito da elementi di commedia). GTA rappresenta la realtà americana spingendo al massimo tutta la sua brutale ridicolaggine, partendo quasi sempre dal punto di vista di un emigrato o di un emarginato, costretto al crimine dalle regole del sistema economico ingiusto di cui fa parte. Questo fa di GTA un gioco antisistema? No, ovvio. È un gioco “di sinistra”? No, è un gioco blandamente liberal, sul piano politico. È pervaso di un certo conformismo, camuffato sotto una lievissima patina di critica sociale traballante. Ma questa caratteristica è condivisa dal 95% della narrativa popolare di tutti i tempi: non può essere considerata un elemento a sfavore di GTA. È un videogame “incompatibile con i buoni sentimenti”? Certo, perché le regole del genere in cui è inscritto lo escludono. Regole non stabilite dalla R*, ma dalla tradizione pulp dagli anni ’30 a questa parte, sia letteraria che cinematografica. Così come in Red Dead Redemption è impossibile che il cowboy protagonista si candidi a governatore della Louisiana, e in L.A. Noire il detective protagonista si metta a trafficare eroina. Così come le tragedie greche non finiscono mai a tarallucci e vino. Così come è difficile reperire un libro di Giulietto Chiesa che comprenda un capitolo in cui due alieni chiacchierano del più e del meno su una stazione spaziale intorno ad Alpha Centauri.
Per concludere, il mio apprezzamento della serie GTA è soprattutto di natura artistica e tecnica. Si può affermare che sia uno degli usi più evoluti e complessi del linguaggio umano, il quale ha richiesto il lavoro di migliaia di persone per lunghi anni. Ho visto di prima persona quanta cura viene messa per la realizzazione di queste opere da tutti i lavoratori coinvolti: non sono intese come un rapido modo per arraffare denaro dai loro autori, ma come una forma d’arte demiurgica e totale. Il medium videogioco sarà la principale forma d’arte del secolo che si è appena aperto, così come il cinema lo è stato di quello passato. In questi anni si stanno ponendo le basi tecniche ed artistiche per la realizzazione di interi mondi virtuali in cui vivere, oltre che esperire avventure (tra l’altro, sarà interessante vedere cosa significherà «Lo sviluppo infinito in un pianeta finito è impossibile» in quel contesto). GTA V sarà ricordato come un egregio antenato di questa tradizione, agli albori del videogame, con la stessa enfasi con cui oggi ricordiamo lo Scarface del 1932 di Howard Hawks (ovvero, non più di tanta). Se volessimo dare il via ad una campagna di protesta che ruota attorno al mondo del videogame, preferirei puntare lo sguardo sulle condizioni di lavoro ignominiose a cui sono sottoposti gli impiegati del settore (in larghissima parte ignari anche dell’esistenza della tecnologia molto cool chiamata “sindacato”), piuttosto che far menate moralistiche sulla capacità di GTA di corrompere i nostri giovani. Dopotutto, abbiamo avuto una fonte di corruzione in veste di leader nazionale per una ventina d’anni e la nostra fibra morale è ancora solida.
In ultima analisi, prima di scrivere un’altra urticante critica contro un videogioco, contro i suoi utenti ed i suoi autori, pretendo che l’estensore del Penitenziagite sfidi suo figlio in multiplayer e vinca.
Un’altra strada per potenziare il senso di immedesimazione nei videogame è la possibilità di personalizzare il proprio personaggio, talvolta in maniera straordinariamente puntigliosa, come avviene ad esempio in The Elder Scrolls: Skyrim (in cui il giocatore è libero di modificare l’aspetto del protagonista, non soltanto scegliendone il look generale, ma anche le sfumature, quali proporzioni o aspetto del naso, bocca, orecchie, vestiario, pettinatura, storia personale, orientamento sessuale, etc). Anche in questo caso, GTA, nonostante qualche minuta concessione a partire da San Andreas in poi, si è sempre collocato all’estremo opposto: i protagonisti, usciti dalla mente degli sceneggiatori, non hanno nulla di personale, nulla di prodotto o scelto dal giocatore stesso. Sono sempre loro, mai io. I giocatori ricordano The Secret of Monkey Island come le scorribande del protagonista, Guybrush Threepwood, e non come le loro avventure nell’Isola della Scimmia, a causa dell’eccellente caratterizzazione del protagonista e dell’ottima sceneggiatura, al pari di quelle presenti in GTA. Viceversa, videogame che privilegiano la personalizzazione, sono esperiti in diversa luce: un giocatore di World of Warcraft non vi dirà «Il druido Araziel ha partecipato all’assedio della cittadella del Re dei Lich», ma «Siamo andati in quaranta a macellare quei fottuti necromanti». Tutto ciò è, ripeto, lapalissiano per un giocatore (anche un giocatore ignorante, incapace di esplicitare queste sensazioni in modo compiuto), ma non lo è affatto per un osservatore esterno, soprattutto se esso tende a leggere ciò che vede sullo schermo con una chiave di lettura di tipo cinematografico. È anche per questi motivi che riuscire a far piangere con un videogame è molto difficile, mentre qualsiasi film sentimentale da mezza tacca ci riesce senza alcun problema. Il protagonista non è il giocatore. I film non sono videogame. Ogni giudizio sui videogame che sfrutta costruzioni teoriche modellate sulla televisione (come i citati McLuhan, Postman e Debord) è destinato a rivelarsi molto probabilmente inaccurato, così come la critica letteraria può essere fuorviante se applicata al fumetto.
Altra e più importante osservazione: quello che nel cinema è il montaggio, nel videogame sono gli algoritmi di gioco. I videogame non sono primariamente delle storie, ma dei luoghi governati da leggi inusuali. Chiesa ignora del tutto questo aspetto e, per ciò, rimane colpito da fenomeni superficiali senza cogliere l’essenza dell’esperienza videoludica. Il senso profondo di un videogame è dato dalle sue meccaniche e non dalle sue caratteristiche “cosmetiche”, dettaglio più appariscente per i profani. Che il bersaglio della pallottola sparata dal protagonista sia una creatura mutante da Epsilon 9 oppure un narcos messicano è, spesso, irrilevante per il giocatore, un mero accessorio di scena. Entrambi sono un ostacolo per la soluzione di un problema. E, soprattutto, non sono esseri umani, ma avatar delle meccaniche del gioco, quindi sfide o enigmi da risolvere. Il gioco consiste nella soluzione del problema. Quel che esteriormente può apparire come una rapina in banca, dal punto di vista soggettivo del giocatore è una serie di decisioni tattiche ed azioni d’estrema complessità, che richiedono pianificazione e tempismo per essere portate a termine. Il giocatore ha una percezione astratta ed iconica delle minacce che gli si parano davanti: accusare GTA di brutalità è, ai miei occhi, analogo ad accusare il gioco degli scacchi di anarchismo, per la sua preoccupante tendenza a concludersi con la morte di un re. Un esempio controintuitivo di questo fenomeno mi è stato fornito da un amico, cresciuto in Giordania. A quanto pare, il videogioco Counterstrike spopolava così tanto tra i giovani della sua città che molti imprenditori decisero di aprire intere sale dedicate soltanto ad esso. Counterstrike è un first person shooter (ergo: inquadratura in prima persona, necessità di mitragliare qualsiasi cosa si muova) in cui il protagonista è un membro dell’esercito USA in missione in Medio Oriente. L’obiettivo è falciare i Maledetti Arabi — per definizione Terroristi -, secondo un modello bambinescamente patriottico condiviso da vari altri videogame. Potrete capire quanto mi sia parso curioso il grande apprezzamento che i summenzionati Arabi-Per-Definizione-Terroristi dimostravano per Counterstrike. Un sociologo da pullman potrebbe dire che Counterstrike erode le virtù morali dei giovani giordani insegnando loro il servilismo all’Impero Americano e la colpevolizzazione preventiva dei blah blah blah. Il punto è che si tratta di un videogame eccellente e divertente, proprio come suo “cugino” Half Life, che ripropone le stesse meccaniche in ambiente fantascientifico. In uno si ammazzano i terroristi, nell’altro dei fascisti alieni in un futuro distopico. Entrambi sono apprezzati da milioni di giocatori a cui l’esatta identità etnico-politica dei bersagli è indifferente, perché non si tratta di esseri umani, né di personaggi in senso proprio, ma meri simulacri delle meccaniche di gioco, proprio quanto i pedoni ed i cavalli degli scacchi. Counterstrike è la versione più tecnologicamente avanzata del gioco degli “indiani e cowboy” che l’umanità abbia mai realizzato.
Altro punto dell’articolo di Chiesa riguarda le cifre: seguendo dei calcoli effettuati alla buona, si preoccupa delle ripercussioni sociali di GTA V, una volta entrato a contatto con «un settimo della popolazione del pianeta». GTA V viene anche etichettato come «evento che definirà una generazione». Ora, per quanto mi risulta, GTA V ha venduto 30 milioni di copie e sarà giocato da 30–50 milioni di persone, considerando qualche amico e fratelli o sorelle aggiuntivi. Se GTA V sarà piratato in maniera forsennata, sparando una cifra assolutamente a caso, potrei dire che potrebbe raggiungere 300 o addirittura 600 milioni di giocatori finali. Ebbene, Super Mario Bros ne ha venduto 40 milioni, ed è stato giocato da chiunque sappia cos’è un videogame. Quali sono state le sue ripercussioni sociali? In che modo ha cambiato il volto della società, imponendo i suoi valori morali e disgregando quelli pre-esistenti? Quante persone hanno iniziato a mangiar funghi magici e saltare sopra le tartarughe, per poi dedicarsi ad una vita all’insegna dell’idraulica, in emulazione di Mario? Anche The Elder Scrolls: Skyrim ha venduto bene: 20 milioni di copie. Dovremmo forse aspettarci che i giovani corrano per le strade sventolando delle alabarde, analogamente ai personaggi del videogame fantasy? Questo genere di argomentazioni parte da un assunto indiscutibile (“Ogni fenomeno di massa ha conseguenze di massa”) per trarne una conclusione arbitraria (“Tutti si comporteranno in accordo a quella che io percepisco essere la moralità intrinseca di GTA”). È una lettura troppo semplicistica. L’effetto di GTA sulla cultura mondiale è, allo stato delle cose, imponderabile. Io aggiungerei “superficiale” e “transitorio”, ma sono giudizi senza alcun riscontro nella realtà. Tuttavia, Wii Sports ha venduto il triplo di GTA V e non mi pare abbia modificato la nostra società in modo percettibile.
Nel pezzo di Chiesa ci sono anche paragrafi volutamente paradossali, come l’immagine di milioni di giovani zombie convenuti online a «stuprare puttane» tramite GTA V in vere e proprie associazioni a delinquere. Le partite in multiplayer non hanno alcun contenuto narrativo. Sono l’equivalente di una partita a tennis o a bocce. Sono delle gare di destrezza il cui obiettivo varia a seconda della modalità scelta. La più banale è il Deathmatch, in cui si sguinzagliano 16 giocatori in un quartiere e vince chi secca gli altri un numero maggiore di volte entro un tempo predefinito. Tutto ciò è sinistro quanto lo sono le pacchiane sale per Laser Game presenti in qualsiasi città, in cui i clienti sono dotati di una buffa pettorina e di un trabiccolo di plastica a mò di fucile “laser” (secondo i caustici standard retorici tenuti da Chiesa nell’articolo, potremmo etichettarle senza dubbio come “fucine del nuovo terrorismo fascista”). Inoltre, è bene sottolineare che, nel gioco, lo stupro è assente in ogni forma (una scena, accusata in tal senso, si è rivelata essere soltanto una mera faccenda di cannibali nudi).
Ultimo punto, il più importante. Ovvero l’accusa a GTA V di accettazione integrale del modello turbocapitalistico nei suoi aspetti più beceri e predatori, di gioco incompatibile con i buoni sentimenti. Fin dal principio, le ambientazioni di GTA sono sempre state caricature della società americana così per come è stata dipinta dei film di genere pulp. Sono quindi caricature di caricature, in un certo senso. Questa connotazione è esplicita, non una sottigliezza da intellettuali. Salendo su una qualsiasi automobile sgraffignata, è possibile sintonizzare la radio su uno o più canali integralmente dedicati a satire sferzanti delle trasmissioni televisive e radiofoniche statunitensi. Al contrario di quanto pensa Chiesa, GTA si è sempre sforzato di apparire quanto più antisistema possibile, sempre entro una cornice di genere pulp. Il potere, in GTA, è sempre e comunque il male assoluto. L’inevitabile scalata sociale del protagonista è affrontata con la tragica inevitabilità che ha mutuato da film come Scarface (nonostante, nel videogame, sia arricchito da elementi di commedia). GTA rappresenta la realtà americana spingendo al massimo tutta la sua brutale ridicolaggine, partendo quasi sempre dal punto di vista di un emigrato o di un emarginato, costretto al crimine dalle regole del sistema economico ingiusto di cui fa parte. Questo fa di GTA un gioco antisistema? No, ovvio. È un gioco “di sinistra”? No, è un gioco blandamente liberal, sul piano politico. È pervaso di un certo conformismo, camuffato sotto una lievissima patina di critica sociale traballante. Ma questa caratteristica è condivisa dal 95% della narrativa popolare di tutti i tempi: non può essere considerata un elemento a sfavore di GTA. È un videogame “incompatibile con i buoni sentimenti”? Certo, perché le regole del genere in cui è inscritto lo escludono. Regole non stabilite dalla R*, ma dalla tradizione pulp dagli anni ’30 a questa parte, sia letteraria che cinematografica. Così come in Red Dead Redemption è impossibile che il cowboy protagonista si candidi a governatore della Louisiana, e in L.A. Noire il detective protagonista si metta a trafficare eroina. Così come le tragedie greche non finiscono mai a tarallucci e vino. Così come è difficile reperire un libro di Giulietto Chiesa che comprenda un capitolo in cui due alieni chiacchierano del più e del meno su una stazione spaziale intorno ad Alpha Centauri.
Per concludere, il mio apprezzamento della serie GTA è soprattutto di natura artistica e tecnica. Si può affermare che sia uno degli usi più evoluti e complessi del linguaggio umano, il quale ha richiesto il lavoro di migliaia di persone per lunghi anni. Ho visto di prima persona quanta cura viene messa per la realizzazione di queste opere da tutti i lavoratori coinvolti: non sono intese come un rapido modo per arraffare denaro dai loro autori, ma come una forma d’arte demiurgica e totale. Il medium videogioco sarà la principale forma d’arte del secolo che si è appena aperto, così come il cinema lo è stato di quello passato. In questi anni si stanno ponendo le basi tecniche ed artistiche per la realizzazione di interi mondi virtuali in cui vivere, oltre che esperire avventure (tra l’altro, sarà interessante vedere cosa significherà «Lo sviluppo infinito in un pianeta finito è impossibile» in quel contesto). GTA V sarà ricordato come un egregio antenato di questa tradizione, agli albori del videogame, con la stessa enfasi con cui oggi ricordiamo lo Scarface del 1932 di Howard Hawks (ovvero, non più di tanta). Se volessimo dare il via ad una campagna di protesta che ruota attorno al mondo del videogame, preferirei puntare lo sguardo sulle condizioni di lavoro ignominiose a cui sono sottoposti gli impiegati del settore (in larghissima parte ignari anche dell’esistenza della tecnologia molto cool chiamata “sindacato”), piuttosto che far menate moralistiche sulla capacità di GTA di corrompere i nostri giovani. Dopotutto, abbiamo avuto una fonte di corruzione in veste di leader nazionale per una ventina d’anni e la nostra fibra morale è ancora solida.
In ultima analisi, prima di scrivere un’altra urticante critica contro un videogioco, contro i suoi utenti ed i suoi autori, pretendo che l’estensore del Penitenziagite sfidi suo figlio in multiplayer e vinca.